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Un percorso decisionale condiviso

La centralità del paziente deve coincidere con il reale coinvolgimento della “persona con”, che ha diritto a partecipare attivamente al processo decisionale che riguarda la cura della sua patologia. L’opinione di Rosa Ioren Napoli , presidente Fimarp.

Che cos’è per lei il patient engagement?

Bene, il patient engagement dovrebbe essere il punto di riferimento fondamentale per impostare una cura del paziente. Con il coinvolgimento si può tenere conto il punto di vista del paziente per quanto riguarda gli effetti della terapia e gli effetti collaterali, nonché l’impatto che la terapia ha sulla qualità della vita. E non ultimo, importantissimo, può essere inteso come compito di colui che diventa un collaboratore, un paziente collaboratore e riuscire a capire come arrivare a una diagnosi certa, veloce in tempi brevi, perché spesso e volentieri di malattie rare in tempi di attesa per arrivare alla diagnosi definitiva sono fondamentali e decidono spesso anche di come proseguirà la patologia. 

Come definirebbe livello attuale di Patient engagement per le persone con malattie rare polmonari? 

Dai ritorni che ho da tutte le associazioni del territorio nazionale, essendo io la presidente FIMARP, quindi la presidente della Federazione nazionale, posso dire che nei luoghi dove abbiamo le Associazioni particolarmente attive, il coinvolgimento del paziente è molto forte, che partecipa attivamente alla gestione della propria patologia. Naturalmente laddove non ci sono Associazioni, è un pochino più complicato poter pensare a un coinvolgimento del paziente in maniera attiva e propositiva.  Perché non c’è un punto di riferimento, non c’è un punto aggregante, quindi il valore delle Associazioni in questo senso è veramente determinante per poter coinvolgere il paziente e in un’attività di gestione della patologia. 

Quali sono le criticità nel Patient engagement delle persone con malattie rare polmonari?

Sino a poco tempo fa (io vedo un cambiamento soltanto negli ultimi anni, nell’ultimo periodo) il paziente veniva considerato come al centro dell’attività di un centro clinico, di un ospedale, insomma, di un punto di riferimento. 

Penso che invece, piuttosto che considerare il paziente al centro della malattia, al centro dell’interesse di un ospedale, penso che sarebbe importante considerare il paziente parte della struttura, non di quella ospedaliera, ma parte dell’organizzazione di cura di quella determinata malattia, perché sentire soltanto il paziente al centro dell’attività e quindi come un oggetto, non credo possa favorire una buona qualità della vita del paziente. Sentirsi semplicemente un oggetto è limitante, mentre sentire di essere attivo nei confronti della propria vita, della propria malattia, può essere anche una forma di cura collaterale, diciamo, non proprio una cura chimica, ma una cura psicologica, una cura proprio del miglioramento delle capacità di affrontare una patologia.

Cosa può favorire la partecipazione del paziente? 

Non sentirlo come un oggetto, perché spesso e volentieri, io ricordo per esperienza personale quando da bambina e poi da adolescente accompagnavo i miei genitori nelle varie visite, loro erano considerati un oggetto al quale la classe medica applicava la propria conoscenza. Non va bene così perché il paziente non è un manichino che subisce la capacità diagnostica di un medico, il paziente è una persona, una persona con tutto il suo vissuto, con tutte le sue difficoltà, con il tessuto familiare, con il caregiver, magari che sta lì a seguire la visita, e che non può neanche essere escluso dal contesto della malattia perché ne subisce chiaramente le conseguenze. Quindi il paziente non deve assolutamente essere più considerato l’oggetto verso il quale … lo studio clinico, il medico, quello che vogliamo, esercita la propria professione, ma coinvolto pienamente nel percorso di cura.

Può indicarci qualche esempio di patient engagement ottimale?

Allora, diciamo che tutto ciò che fa la Federazione o l’Associazione è in qualche modo coinvolgimento del paziente. In Italia non c’è, almeno che mi risulti, un percorso codificato per coinvolgere il paziente nella gestione della malattia. Ci sono delle esperienze locali. Uno per tutte potrebbe essere la stesura del PDTA, del piano terapeutico assistenziale, dove sono chiamati i rappresentanti dei pazienti. Purtroppo non abbiamo una grossa tradizione in questo senso. In altri paesi europei, i pazienti vengono chiamati anche a indicare le linee guida. Noi ancora non ci siamo arrivati.

Quali potrebbero essere le prime azioni da compiere per favorire il patient engagement della persona con malattia rara polmonare? 

La prima azione da parte di una struttura ospedaliera, del medico curante, da parte di chi prende in carico il paziente è quella di dare sicurezza e tranquillità, coinvolgendo il paziente nella propria diagnosi: non deve essere nascosta la gravità della situazione, ma spiegata in modo piano, chiaro e tranquillo.  Penso che in questo modo un paziente possa diventare più confidente e dare anche un apporto al medico stesso, perché pure il medico ha bisogno dei risconti del paziente. Il medico ha bisogno di conoscere quello che succede anche all’interno della famiglia, quali sono i risvolti familiari, per capire completamente il tipo di patologia che sta trattando e che sta curando. Quindi dare tranquillità e sicurezza può rappresentare l’inizio di una collaborazione piena, favorendo un vero coinvolgimento del paziente.

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