Considerare il paziente come una persona
Ingaggiare il malato significa renderlo soggetto attivo nella gestione della propria condizione. Consapevole del proprio diritto a diagnosi e cura, ma anche dei propri doveri in termini di partecipazione al progetto di cura di cui è protagonista. L’opinione di Maria Rosaria Di Somma, consigliere delegato AISC.
Che cos’è per lei il patient engagement?
Per rispondere a questa domanda vorrei partire da una considerazione: la centralità del paziente, nel Sistema sanitario nazionale (Ssn) considerando che tutto il Ssn in ultima analisi nasce e vive per la soddisfazione delle esigenze di cura del paziente. Infatti il modello di gestione della cura, in particolare di un paziente cronico, è proprio costituito dal paziente al centro e tutto intorno in maniera circolare e anche interattiva, i vari clinici, le persone che hanno a cuore il paziente, senza dimenticare la figura determinante dell’infermiere.
In tutto questo però, almeno nella nostra concezione ma credo che sia opinione diffusa, il paziente non deve essere un soggetto passivo unicamente destinatario della cura.
Cosa può favorire secondo lei la partecipazione del paziente?
È importante che il paziente venga considerato come persona interessata alla sua patologia e a migliorare le proprie condizioni di salute.
Non dimentichiamo che nel caso dello scompenso cardiaco, e in particolare nel caso delle malattie croniche, queste patologie hanno un impatto anche sulla famiglia. Quindi il paziente deve essere stimolato a comprendere che non può astenersi dal fare delle attività, non può astenersi dal recepire che può migliorare le proprie condizioni di vita. Conseguentemente lo si deve stimolare per fargli capire che anche lui deve fare la sua parte.
Anche lui deve sapere come si sta muovendo la ricerca scientifica, deve sapere quale è il momento in cui la patologia va in aggravamento, deve potersi monitorare i sintomi.
Secondo lei tutti i player del Pdta delle persone con scompenso cardiaco sono ingaggiate adeguatamente per favorire un buon livello di patient engagement?
È questione di cultura. Forse mi ripeto in questo che dico, ma in passato il paziente è stato considerato come la persona che doveva quasi subire la diagnosi, la cura, attenendosi a quello che gli veniva dato…senza tutte le spiegazioni, tutte le informazioni che potessero essergli d’aiuto nel suo percorso di cura. Noi abbiamo riscontrato anche delle gravi mancanze. Credo che ci dovrebbe essere anche uno sforzo collegiale da parte di tutti coloro che prendono in carico il paziente e che ne hanno cura, cercando di fare quello sforzo di spiegare, di dare informazioni, di ritenerlo all’altezza, di essere pronto a recepire l’importanza di poter avere tutti gli elementi per migliorare il suo percorso di cura.
Perché è importante fare patient engagement? Quali possono essere i benefici?
I benefici sono tantissimi. I pazienti che hanno seguito le nostre indicazioni lo testimoniano: il paziente riesce a curarsi meglio, riesce a evitare il ricorso alle ospedalizzazioni. È qualcosa di molto importante perché lo scompenso cardiaco è una delle prime cause di ospedalizzazione e di riospedalizzazione. Più il paziente va al Pronto Soccorso, più gli si accorcia la vita. Un discorso, questo che vale per il paziente scompensato, ma penso che possa essere esteso anche ai pazienti cronici. Essere ingaggiati significa veramente vivere più a lungo, vivere meglio.
E poi nel caso delle sperimentazioni cliniche, se il paziente partecipa al trial consapevole che sta facendo qualcosa affinché ci sia un miglioramento nella cura della patologia per sé stesso e per tutti coloro che sono affetti da quella patologia, beh…il paziente che è formato, che è informato, che sa che cosa sta facendo, non è un paziente che abbandona il percorso della sperimentazione clinica, o che non è aderente alle indicazioni che riceve dallo sperimentatore.
Quali potrebbero essere secondo lei, le prime azioni da compiere per favorire il patient engagement della persona con scompenso cardiaco?
Bisogna innanzitutto dare spazio al paziente. Cioè non bisogna limitarsi alla diagnosi e alla terapia…bisogna considerare il paziente come persona. Una persona che ha diritto di conoscere la sua patologia, che ha diritto di fare domande e di avere delle risposte, che ha diritto di sapere che al di là della cura, della terapia, del device, è importante lo stile di vita. E che ha bisogno di sapere che non è un invalido, che può anche cercare di svolgere una vita il più possibile normale.
Quindi, bisogna stimolare nel paziente la voglia di sapere, la voglia di seguirsi, la voglia di essere preparato nella visita con il medico. Deve esser stimolato alla propositività, all’ascolto consapevole. Certamente non per quello che può attenere a tutti gli aspetti clinici, che è di stretta competenza del medico, ma soprattutto nel discernimento di quelle che sono le condizioni di vita relative alla sua malattia, di quelle che sono l’analizzarsi, seguirsi, di quello di saper cogliere i sintomi, di saper capire come si deve comportare in ogni circostanza.
Le nuove tecnologie possono favorire il patient engagement? In che modo?
La telemedicina è quel salto di qualità che mette in condizione di assicurare la presa in carico del paziente, di assicurare anche la continuità di cura, di ridurre il ricorso agli ospedali e quindi anche di creare un migliore link tra ospedale e territorio, quindi rafforza anche tutte le carenze a cui abbiamo assistito in questo momento così difficile, così tragico. Credo debbano essere poi portate avanti in un nuovo sistema, in una Sanità nuova.
Siamo convinti e abbiamo chiesto anche alle istituzioni che bisogna orientarsi verso un sistema di cura e monitoraggio a casa del paziente.